12 Feb 2016
Dott.ssa Maria Giuseppina Biddau psicologo
30 Lug 2015
Una riflessione su vulnerabilità vs resilienza
Non ci può essere resilienza senza vulnerabilità.
La vulnerabilità è l’altra faccia della medaglia.
Ieri mattina leggevo i vari quotidiani online e la notizia che più mi ha colpito è stata quella di
Bailey: 8 anni e una paralisi cerebrale Finisce il triathlon e corona il sogno
Quanta vulnerabilità in Bailey eppure quanta resilienza. Questo bambino è riuscito ad andare oltre il suo personale dramma, come i suoi genitori che facevano il tifo per lui. La vita sferra un colpo e Bailey risponde con altrettanta forza, tenacia e umiltà.
Vulnerabilità proviene da vulnus, ferita. Vulnerabile: Che può essere ferito (Corriere della sera). Mi salta all’occhio il poter essere. Vulnerabile dunque non è colui che è ferito e non si può muovere. Ma colui che può essere ferito. E’ possibile, ma non è detto che questo avvenga. La vulnerabilità dunque, non è uno stato. Più si è flessibili e adattabili e meno questa ferita lacera e lascia inermi.
Bailey come la sua mamma e il suo papà non si sono fatti ingabbiare dalla categoria handicap con il rischio di perdere di vista le risorse. Sono riusciti a trasformare la vulnerabilità in resilienza.
Se vuoi approfondire su come educare alla resilienza te stesso e i tuoi figli Clicca qui
27 Lug 2015
Educare alla resilienza
Stamattina ero in fila sull’Asse mediano direzione Cagliari e ascoltavo uno dei tanti notiziari. Mi ha colpito la scomparsa della figlia di Whitney Houston.
“Bobby Kristina non si era mai realmente ripresa dal dolore e dallo shock della morte della madre, aveva 22 anni”.
Mi ripetevo…Morta…Si è lasciata morire a 22 anni. Non ci posso credere. Non ci voglio pensare!
Resilienza Mancava di Resilienza.
Costruite giorno dopo giorno nei vostri bambini, ragazzi la capacità di affrontare le brutture della vita. Insegnategli che a tutto c’è rimedio, anche alla morte di una persona cara. In che modo? Dalle piccole e stupide cose che ti accadono tutti i giorni. Si brucia la torta. Pazienza! Togliamo la parte bruciata e facciamo una crema e la farciamo insieme. Si rompe il phon lo porto ad aggiustare. Non si può aggiustare? Meglio così, compro quello galattico. Dalle stupide e piccole cose. Si vabbeh! Ma vuoi mettere la morte di una persona con una torta bruciata…Ovviamente No.
Voglio mettere… allenarsi e allenare i nostri figli a trovare valide e diverse soluzioni a ciò che capita nella vita. Questo sì!
La resilienza è una “ripartenza. Un’inversione di tendenza a seguito di un “rimbalzo” come indica la voce latina “resalio”.
Resilienza” è un termine per lo più attribuito alla metallurgia, infatti è un termine derivato dalla scienza dei materiali che indica la proprietà che alcuni materiali hanno di conservare la propria struttura o di riacquistare la forma originaria dopo essere stati sottoposti a schiacciamento o deformazione. Emmy Werner lo usò per la prima volta nell’ambito di una ricerca sui neonati dell’isola hawaiiana di Kauai, dove aveva riscontrato l’attitudine di far fronte alle difficoltà della vita in contesti sociali sfavorevoli
La resilienza in psicologia è l’abilità di rialzarsi dopo una crisi, più flessibili, più consapevoli e più equilibrati di prima; è l’istinto di superare le sofferenze senza soccombere, traendo apprendimento da quanto patito. E’ un processo di rielaborazione cognitiva, emotiva, comportamentale e spirituale della rappresentazione del dolore che porta a fronteggiare perdite, traumi, lutti con la volontà di ricominciare a costruire, anche se con poche energie.
Si tratta di incontrare la sofferenza, accettarla e trovare forme di elaborazione che permettano alla persona di integrare le parti luce con le parti buie, le risorse con i limiti, e comprendere che l’esperienza traumatica, che rimane scritta nel profondo dell’animo, può divenire occasione formativa. Non significa urlare al mondo quanto sono contento di come sto soffrendo, No, questo no.
Guardare in faccia la realtà, la sofferenza. Trovare risorse, nuove e flessibili per affrontare ciò che di traumatico e doloroso è accaduto. Questo sì!
Ciascuno di noi conoscendo se stesso, può utilizzare risorse che non sapeva di possedere. Attraverso la resilienza non si va verso il dolore e l’autodistruzione, ma si va verso una diversa consapevolezza di se.
Una psicologa, Edith E. Grotberg, studiosa di resilienza, ha proposto un modello per superare le situazioni traumatiche fondato su: I have, I am, I can. Io ho risorse, io sono, io posso affrontare.
Ciascuno di noi possiede questo atteggiamento sin dalla nascita lo dobbiamo solo affinare e sviluppare come hanno fatto Giusy Versace, Annalisa Minetti e tante persone comuni come i genitori della tabaccaia uccisa ad Asti. Ciascuno con la sua modalità che gli permette di andare avanti nonostante ciò che gli è accaduto. meccanismi comportamentali che non sono più funzionali alla vita.
Bibliografia
- Elena Malaguti – Educarsi alla resilienza. Come affrontare crisi e difficoltà e migliorarsi – Ed Erickson (2005)
- Giorgio Nardone, Alessandro Salvini – Dizionario Internazionale di psicoterapia – Ed Garzanti (2013)
Sitografia
http://www.doppiozero.com/materiali/chefare/resilienza-larte-di-adattarsi
http://www.nonterapia.ch/tre-eventi-eccezionali-sabato-7-febbraio-a-milano-a-partire-dalle-18-30/
http://www.nonterapia.ch/tre-eventi-eccezionali-sabato-7-febbraio-a-milano-a-partire-dalle-18-30/
15 Lug 2015
Due numeri in meno
“Lo sforzo…va bene per chi è stitico”
Jorge Bucay
Un uomo entra in un calzaturificio e un gentile commesso gli si avvicina:
«In che cosa posso servirla, signore?». «Vorrei un paio di scarpe nere come quelle in vetrina.» «Certo, signore. Vediamo: il numero che cerca dev’essere il quarantuno, vero?» «No. Mi dia il trentanove, per favore.» «Scusi, signore. Sono vent’anni che lavoro in questo campo e il suo numero dev’essere il quarantuno. Forse il quaranta, ma non il trentanove.» «Il trentanove, per favore.» «Scusi, permette che le misuri il piede?» «Faccia come vuole, ma io voglio un paio di scarpe numero trentanove.» Il venditore tira fuori da un cassetto quello strano aggeggio che si usa nei negozi di
scarpe per misurare i piedi, ed esclama tutto soddisfatto: «Ha visto? Glielo dicevo io: quarantuno!«Senta un po’, chi è che paga le scarpe, io o lei?» «Lei.» «Bene. Allora mi vuole dare il trentanove?» Il venditore, rassegnato e sorpreso, va a prendere un paio di scarpe numero trentanove. Lungo il tragitto ha un’illuminazione: le scarpe non sono per quell’uomo, le vorrà certamente regalare. «Signore, eccole qui: trentanove, e nere.» «Mi dà un calzascarpe?» «Intende metterle?» «Sì, certo.» «Sono per lei?» «Sì! Mi dà un calzascarpe?» Il calzascarpe è indispensabile per riuscire a far entrare il piede in quella scarpa. Dopo vari tentativi e posizioni ridicolissime, il cliente riesce a far entrare tutto il piede nella scarpa. Tra esclamazioni di dolore e grugniti muove qualche passo sul tappeto, con sempre maggior difficoltà. «Va bene. Le prendo.»
Il venditore sente male ai propri piedi pensando alle dita del cliente compresse dentro alle scarpe numero trentanove. «Faccio un pacchetto?» «No, grazie. Le tengo su.» Il cliente esce dal negozio e attraversa alla bell’e meglio i tre isolati che lo separano dal posto di lavoro. Fa il cassiere in una banca. Alle quattro del pomeriggio, dopo avere passato più di sei ore in piedi con quelle scarpe infilate, ha il viso stravolto, gli occhi arrossati e le lacrime scendono copiose dai suoi occhi. Il collega della cassa a fianco l’ha osservato per tutto il pomeriggio ed è preoccupato per lui. «Che cosa c’è? Ti senti male?» «No. Sono le scarpe.» «Che cos’hanno le scarpe?» «Sono strette.» «Come mai? Si sono bagnate?» «No. Sono due numeri in meno del mio piede.» «Di chi sono?» «Sono mie.» «Non capisco. Non ti fanno male i piedi?» «Mi fanno male da morire, i piedi.» «E allora?» «Ti spiego» dice, deglutendo. «La vita non mi dà grandi soddisfazioni. In realtà, negli ultimi tempi, sono pochi i momenti gradevoli.» «E allora?» «Queste scarpe mi fanno male da morire. Soffro terribilmente, è vero… Ma tra qualche ora, quando arriverò a casa e me le toglierò, t’immagini il piacere? Dio che piacere! Che piacere!
[…]
Occorre disinnescare una trappola che ci hanno inculcato nel cervello fin da quando eravamo piccoli…
Ha valore solo quello che viene conquistato con lo sforzo.
Questo è il nostro percorso educativo. […]
Questa storia estremizza un pò, è vero. Ma…Pensaci bene, nella vita ci sono patimenti che ci infliggiamo a causa dell’educazione che non sono necessari, che seguono semplicemente una falsa educazione.
Che cosa avrebbero pensato gli altri se non fossi andato a quella riunione? Se non dimostravo gratitudine a quell’uomo che consideravo una creatura spregevole? Se rispondevo no ad una richiesta semplicemente perché non mi andava di soddisfarla? Se mi concedevo il lusso di lavorare quattro giorni alla settimana rinunciando a guadagnare più soldi? Se andavo in giro senza essermi fatto la barba? Se mi rifiutavo di smettere di fumare finché non mi fosse venuto naturale? Se…
Bibliografia
Jorge Bucay, M. Finassi Parolo – Lascia che ti racconti: Storie per imparare a vivere (BUR Psicologia e società)
2 Lug 2015
Il mattone boomerang
C’era una volta un uomo che andava in giro con un mattone in mano.
Aveva deciso che ogni volta che qualcuno lo avesse fatto arrabbiare gli avrebbe lanciato addosso il mattone.
Era un metodo un po’ rozzo, però sembrava efficace, no?
Un giorno s’imbatté in un amico prepotente che gli si rivolse in malo modo.
Fedele alla propria decisione, l’uomo afferrò il mattone e glielo lanciò addosso.
Non ricordo se l’avesse colpito. Ma sta di fatto chi il successivo recupero del mattone gli parve disagevole.
Decise allora di migliorare il “Sistema di Autorecupero del Mattone” come lo chiamava lui.
Legò un cordino lungo un metro attorno al mattone e uscì di casa.
Il mattone non avrebbe potuto andare troppo lontano, ma anche il nuovo metodo aveva alcuni inconvenienti: in effetti il destinatario delle ostilità doveva trovarsi a meno di un metro di distanza e poi dopo averlo scagliato il mattone, l’uomo doveva prendersi la briga di raccogliere il cordino, che tra l’altro sovente si aggrovigliava e si impigliava, con conseguente disagio.
Allora l’uomo inventò il ” Sistema Mattone III”.
Protagonista era sempre il solito mattone ma il nuovo sistema prevedeva una molla al posto del cordino.
Ora il mattone poteva essere scagliato più volte e sarebbe sempre tornato indietro da solo pensò l’uomo.
Uscì di casa e, nel momento in cui fu vittima della prima aggressione, lanciò il mattone.
Ma non colpì l’obiettivo perché, quando la molla entrò in azione, il mattone schizzò all’indietro andando a finire proprio sulla testa dell’uomo che lo aveva lanciato.
Ci provò un altra volta, e si prese una seconda mattonata perché aveva calcolato male le distanze.
La terza mattonata se la prese perché aveva calcolato male i tempi.
La quarta fu particolare perché, dopo aver deciso di lanciare il mattone contro la vittima, aveva cercato di proteggerla con il risultato di prendersi di nuovo il mattone in testa.
Si fece un bernoccolo enorme…
Nessuno seppe perché non riuscisse mai a dare una mattonata a qualcuno: se per via dei colpi ricevuti o per qualche deformazione del suo animo.
Tutti i colpi si ritorcevano sempre contro di lui.
Questo meccanismo si chiama retroflessione: consiste nel proteggere gli altri dalla nostra aggressività, malumore, rabbia che si rivoltano contro noi stessi mediante gesti concreti di auto – aggressione come autolesionarsi, ingozzarsi di cibo, assumere droghe, correre rischi inutili; altre volte mediante emozioni o sentimenti camuffati come depressione, senso di colpa, somatizzazione. Costruiamo una barriera per proteggere l’altro dalla nostra aggressività. Questa barriera si comporta come una molla. La rabbia emozione priva di valenza positiva o negativa si è attivata e da qualche parte deve sfociare e si rivolta contro noi stessi, attraverso i meccanismi sopra descritti.
L’ideale sarebbe un utopistico essere illuminato che non si arrabbia mai, lucido e solido.
Probabile? Forse…Boh…Non saprei.
Comunque una volta che abbiamo sperimentato la rabbia, l’ira o il fastidio. Azione!
Altrimenti presto o tardi l’unico risultato che otterremo sarà di arrabbiarci con noi stessi.
Bibliografia
Jorge Bucay – Lascia che ti racconti: Storie per imparare a vivere
16 Giu 2015
La vendetta è tagliarsi le palle per fare un dispetto alla moglie
Secondo Etienne Mullet è meglio il perdono. La strada del perdono è più difficile e tortuosa della vendetta. Ma la vendetta mette a dura prova organismo e cervello, soprattutto se questo risentimento perdura nel tempo.
Il sentimento della vendetta è naturale. Subito dopo un’offesa, a volte, è normale stare male. Meno sano è covare rabbia, risentimento, sentimenti di vendetta per 20 anni. Il sentimento di vendetta che perdura nel tempo rischia di minare la salute psicofisica dell’individuo, fino a causare ansia e depressione.
Etienne Mullet sostiene che i benefici della vendetta sono scarsi se confrontati con i danni psicologici che possono causare “Allontana le persone care, perchè chi vuole vendicarsi appare inquietante, nel caso peggiore la vendetta attuata può persino condurre in prigione”
– Mente & cervello – I vantaggi della vendetta di Etienne Mullet
28 Mag 2015
Sai dire di no? Proprio a tutti?
La capacità di dire no è affermare se stessi, essere autentici, senza offendere l’altro.
Per molte persone, è un comportamento difficile da mettere in atto. Sono convinte che per essere accettate e ottenere affetto devono essere, sempre accondiscendenti gentili e soprattutto non devono dire no, devono essere sempre garbati, di buon umore, pronti a consolare, anteponendo i bisogni degli altri ai propri, evitando coscienziosamente il conflitto.
Dicono si quando in realtà vorrebbero dire no. Non esprimono se stessi in modo adeguato. Hanno una mancanza di assertività. Sono compulsivi nella loro ricerca di compiacere. Li accompagna, fedele, la maledizione dell’altruista. Spesso si sentono in trappola, soffocati dalle loro stesse aspettative e da quelle degli altri.
Chi è colpito dalla maledizione dell’altruista crede che mostrando i propri bisogni, le proprie esigenze verrà respinto e abbandonato. L’altruista compulsivo reprime le proprie emozioni. Rabbia e risentimento covano in silenzio, fino a che esplodono per un’inezia lasciando tutti basiti, passando dalla ragione al torto.
Dopo qualche tempo dallo scatto di rabbia l’altruista si sente in torto, assalito dai sensi di colpa “Forse ho esagerato, avrei dovuto…e poi…si, …ma”. Ecco che entra in un circolo vizioso di rinforzo. Non accetta le proprie reazioni e si convince che sia necessario dire sì…sempre. Da notare…l’altruista compulsivo evita i conflitti di qualsiasi genere. Ma rincorre l’altro per avere conferme circa il proprio valore.
Questo spazietto è dedicato a te che ti sei identificato nella descrizione.
Ti propongo un esercizio che do spesso in terapia. Sembra un gioco e invece è uno strumento semplice che ti restituisce un’immagine immediata del tuo modo di comportarti e di che cosa provi. E’ una rappresentazione visiva del tuo essere altruista compulsivo.
Clicca sulla parola Angioletto, scarica l’immagine, stampala, oppure disegnala in un foglio abbastanza grande. Nelle linee che si irradiano dalla figura descrivi ciò che ti sembra di mostrare agli altri o come vorresti che gli altri ti percepiscano: sono sempre sorridente, ascolto tutti, sono disponibile, non dico mai no, faccio ridere tutti, prima ci sono le esigenze dei miei figli, del mio partner, dei colleghi, prima c’è il mio lavoro, non nego mai niente a mia madre, ecc…sono comportamenti positivi, che, però, vi costano fatica, impegno, energie.
Dentro l’immagine, sul vestito e sulle maniche scrivi ciò che ribolle, le emozioni represse legate al dire si, quelle che nascondi, spesso anche a te stesso, quelle che vengono definite “negative”: tristezza, rabbia, rancore, senso di abbandono, angoscia della scelta.
Ora guarda il disegno. Qual è il prezzo che paghi dicendo sempre si?
E’ un giochino che puoi fare in generale, oppure soffermati un attimo e pensa in quali contesti e con quali persone non sei assertivo e cadi nella maledizione dell’altruista
Sappi che i comportamenti possono essere cambiati. Passo dopo passo. Iniziate a dire no, una volta alla settimana. Può essere un no a tuo figlio che vuole andare a dormire tardi. Può essere un no alla tua collega che ti chiede aiuto e tu rimani indietro col tuo lavoro. No ad una amica, no al tuo compagno.
Ultimo accorgimento importantissimo. Il NO, deve essere chiaro, diretto, semplice, secco, equilibrato, educato e deciso. Motivalo, ma non troppo.
E’ impossibile accontentare tutti, sempre. Liberati da questa maledizione.
Bibliografia
Jacqui Marson – Come imparare a dire di no senza sensi di colpa – eNewton Manuali e Guide
29 Apr 2015
Rancore come fare?
Aggrapparsi alla rabbia è come afferrare un carbone ardente
con l’intento di gettarlo a qualcun altro;
sei sempre e solo tu quello che rimane bruciato
Buddha
Rancore proviene dal verbo rancere essere rancido riferito al cibo guasto con odore e sapore disgustoso. Il rancore è un sentimento di ostilità, odio che si ha in seguito ad un’offesa ricevuta. La sua peculiarità è di permanere nel tempo creando pensieri ossessivi e ruminazioni che sfociano a volte in sentimenti di vendetta.
Quell’odio, quel rancore, quei pensieri, fanno stare male solo te. Che aspetti? Inizia a vivere.
In che modo?
Primo passo essenziale per qualsiasi cambiamento. Sposta il luogo di controllo da fuori a dentro.
E che significa?
Locus of control esterno
“Se sto così male. La colpa è la sua. E’ lui/lei che mi ha fatto questo. E’ colpa sua se mi sono comportato così…E’ colpa sua se ho fatto questa scelta”
Locus of control interno
“Come posso fare per migliorare la mia situazione? Faccio del mio meglio per ottenere quel risultato. Mi applico di più…” Non darsi per vinti e cercare sempre nuove soluzioni. Credere in se stessi e impegnarsi per ottenere risultati, perseverando senza temere fatica e senza arrendersi.
La tua azione influenza il risultato finale
Valuta la tua responsabilità nei tuoi fallimenti
Sposta il “luogo di controllo” verso l’interno. Focalizza la tua attenzione su ciò che provi tu, ciò che senti tu, ciò che fai tu o che cosa puoi fare per cambiare la situazione. So che è difficile perchè appena ci provi inizi a pensare “Si, ma lui/lei…” Focalizza la tua attenzione su di te.
Punto focale è il lavoro su se stessi.
Tu sei responsabile di te stesso.
20 Mag 2016
Fermare il ciclo della rabbia